mercoledì 12 dicembre 2012

Femminicidio #4

 

Mentre infilo in bocca il croissant di crema e cioccolata, con smisurata lentezza, ne pregusto il sapore prima ancora di sentirlo. Una buona colazione al mattino, nella pasticceria di fronte alla chiesa di questo paese friulano, è tra le gioie della vita.
Nel frattempo scorro i titoli del giornale.
Politica, nazionale e internazionale. Ancora Obama, Berlusconi, Monti. Cose note, ragionamenti sempre uguali.
Nelle pagine interne leggo di un altro femminicidio. Il centodiciottesimo quest'anno. Qualcuno dice. Non so come li hanno contati, ma per me va bene che siano centodiciotto o millecentodiciotto. Fa lo stesso.
Chissà, penso, potrebbe essere una soluzione anche per il mio problema, non si sa mai.
In effetti, come un incubo, un pensiero oscuro, mi perseguita e pervade ogni cosa che faccio. Mi sveglio al mattino con una sensazione sgradevole, e la sera faccio fatica ad addormentarmi.
Chi l'avrebbe detto tre anni fa, quando ci siamo conosciuti alla festa di compleanno di un compagno di corso?
Chiara era una matricola, o quasi. Piccolina, due seni come mandarini. Cosce e polpacci da montanara. Non era bellissima, è vero. Ma a letto era una bomba. E soprattutto ci eravamo finiti meno di due ore dopo esserci conosciuti.
Dopo qualche giorno si era trasferita nel nostro appartamento, quello che condividevo con due amici. Ed era cominciato un rapporto a quattro difficile da raccontare e da credere. Sembrava che non le bastasse mai. Era sempre pronta, a qualunque ora del giorno o della notte.
Girava per la casa nuda e dormiva talvolta in un letto, talvolta in un altro. Mai nel suo.
Quella follia era durata quasi un anno. Eravamo la favola dell'università. Una di quelle storie che sogni di vivere almeno una volta nella vita.
Finché un giorno raccontò, scura in volto, che era incinta.
Vabbè, che problema c'è? Pensai. Ci vuole poco per una IVG. Perché era triste?
Ma lei non aveva nessuna intenzione di abortire. Ci colse tutti di sorpresa: chi l'avrebbe mai detto? Abbiamo vissuto insieme per quasi un anno, giorno e notte, abbiamo fatto le vacanze insieme, parlato di tutto, e di lei non sapevamo nulla.
Qualche giorno dopo si trasferì a casa dei suoi, in Friuli, lasciando l'università.
La nostra vita cambiò all'improvviso e radicalmente. Per qualche giorno vivemmo nel rimpianto e nel ricordo. Poi passammo oltre.
Una sera, mi telefonò chiedendomi se avessi intenzione di riconoscere il figlio.
Che colpo. E perché mai?
Anzitutto: come faceva a dire che era mio figlio? Era andata a letto con tutti noi tre, e non escluderei anche con altri. Come faceva a dire che era mio? Lei diceva che ne era sicura, ma a me la sua sicurezza non dimostrava nulla. Proprio nulla.
Riconoscere un figlio? Non ero ancora laureato, mi trovavo con la vita ipotecata, impegnata prima ancora di avere iniziato a viverla. Non riuscivo neppure a pensare a quella ipotesi. Cosa significava? Avrei dovuto mandargli dei soldi, suppongo. E andare a trovarlo ogni tanto, magari.
In ogni caso era una cosa che non riuscivo assolutamente ad accettare: si trattava di divertimento, solo di divertimento. Se avessi voluto un figlio, avrei fatto altro.
In Aprile nacque una bambina. La chiamò Sofia. Mi telefonò il giorno stesso del parto. Insisteva che era mia figlia.
Sembrava un incubo, io dovevo laurearmi a Luglio, avevo altro a cui pensare.
Quella faccenda era diventata una barzelletta. Io e i miei amici tiravamo a sorte su chi potesse essere il padre e ridevamo fino a vomitare, sbronzi di birra e whisky.
Ad ogni modo fino a Luglio non ci pensai più. Ero impegnato nella tesi e negli ultimi esami, per cui che andasse al diavolo.
Ma in ogni cosa che facessi si insinuava un tarlo oscuro, ogni cosa era come un tronco perso nelle sabbie mobili, come una mela marcita da dentro. Mi concentravo a fatica e sempre con un senso di colpa dentro.
La sera stessa della laurea lei mi telefonò per complimentarsi e ricordarmi i miei obblighi. Ero stanco della giornata e dei festeggiamenti, in un angolo della stanza faceva bella mostra la corona di alloro e il cappello nero a punta dei dottori. La mandai al diavolo e le urlai che non era mia figlia. Sbattei giù il telefono.
Il giorno dopo richiamò e attaccò senza preliminari: «se non mi credi, fai l'esame del DNA». Chiusi la comunicazione senza rispondere e pensai, per quel giorno e per quelli che seguirono, a godermi il meritato riposo, premio di tanti anni di studio.
In Agosto andai con la famiglia all'Elba, come facevamo da sempre ad eccezione dell'ultimo anno, quando avevo fatto le vacanze con Chiara. E Chiara non era una di quelle che porti a conoscere i tuoi.
La notte di San Lorenzo conobbi Laura, ovviamente guardando le stelle cadenti dal terrazzo della pensione.
Figlia di un pezzo grosso, ebbi subito il sospetto che qualcuno avesse manovrato per farci incontrare. Scoprii infatti in seguito che mio padre e suo padre si conoscevano da giovani.
In ogni caso contava poco: era una ragazza fantastica. Alta, slanciata, un seno da paura. Occhi neri come il carbone, su un corpo caldo di siciliana.
La famiglia di lei era cattolica vecchio stampo, e lei aveva solo un pizzico di fantasia, quel minimo di contestazione che non guasta il rapporto con i genitori, i quali accoglievano con compiacimento le sue uscite progressiste e populiste, con una spolveratina di femminismo.
Nel giro di pochi giorni mi presi una di quelle cotte che ti fanno vedere il mondo in un'altra luce. All'improvviso afferrai con precisione che la laurea serve per lavorare. E che lavorare serve per guadagnare. E che i soldi servono per comprare casa e mantenere una famiglia.
Tornai perciò a casa prima della fine di Agosto, già con una serie di idee e progetti per mettermi al lavoro nel giro di poco tempo.
All'inizio di Settembre Chiara si presentò a casa mia con la bambina in braccio. Ero a casa da solo, verso le nove del mattino. Stavo per uscire quando suonò il campanello. Vedermela di fronte fu come un mattone sulla testa. Mi si annebbiò la vista e mi mancò il respiro, mentre cercavo qualcosa da dire o da fare.
Lei mi guardava fisso sporgendomi la bambina: «tua figlia».
Appena mi ripresi le dissi con cattiveria che la smettesse di rompermi i co...ni e che per quel che mi riguardava poteva essere figlia di mezza facoltà. Lei tranquilla: «togliti il dubbio, fai l'esame».
Avevo appena letto che in parlamento era passata una legge che equipara i figli naturali ai figli legittimi. Pur non avendo preso visione con precisione del dibattito, credo che ciò significasse che un qualunque figlio, o la madre per lui, può pretendere dal padre di essere riconosciuto e trattato come i figli nati nel matrimonio.
Perciò mi convinsi che fosse una faccenda da risolvere, al più presto. E con la minore pubblicità possibile. Figurati se Laura o i suoi genitori venissero a sapere di questa storia, o anche solo lo sospettassero. Perciò le dissi di togliersi dai piedi e che mi sarei fatto sentire. La presi per le spalle e la indirizzai verso la porta d'ingresso.
Due settimane dopo la raggiunsi al suo paese, in Friuli. Andammo insieme a Udine dove facemmo i prelievi, io e la bambina. Quell'esame costava uno sproposito, ma se mi avesse tolto un pensiero era una cifra che pagavo volentieri.
Mi trovai molto in imbarazzo a spiegare a Laura e ai miei genitori di quella giornata clandestina. Inventai un progetto da discutere con un cliente potenziale, progetto che poi finsi fosse sfumato nel nulla. Ero in imbarazzo nel costruire quella storia inverosimile e temevo che mi scoprissero.
Ma tutto filò liscio, contro ogni previsione.
Tornai a casa e non ci pensai più. In effetti me ne dimenticai proprio, fino al giorno in cui arrivò una lettera azzurra dell'Ospedale di Udine. La bella giornata di Novembre, fredda ma piena di sole, si oscurò all'improvviso, come per un tetro presentimento. Andai in camera, chiusi la porta e aprii la lettera con le mani che tremavano.
Il mondo mi cadde addosso leggendo il linguaggio asettico con cui mi confermavano che i nostri profili genetici, il mio e quello di mia figlia, erano compatibili.
Chiusi tutto in un ripostiglio oscuro della memoria per una settimana, ma sapevo bene che non potevo nascondere la testa come gli struzzi. Dovevo agire.
Mi telefonavo spesso con Laura e ci vedevamo tutti i fine settimana. O saliva lei, o scendevo io. Pranzavo a casa dei suoi, pranzi magnifici e vini memorabili. In Sicilia l'inverno non è come da noi, è quasi estate. Salire e scendere dall'aereo era come passare da una stagione all'altra.
Facevamo già progetti per il matrimonio, grosso modo eravamo orientati per la primavera, massimo l'estate dell'anno dopo. Io avevo già iniziato a fare i primi lavori, e dove non arrivavano i fatti suppliva la fantasia e la presunzione. Ero sicuro che ce l'avrei fatta, comunque. Anche il mio futuro suocero ne era convinto: al punto che mi aveva organizzato un appuntamento con alcuni suoi conoscenti, persone influenti, accidenti.
Così siamo arrivati a Dicembre. Mi sono deciso alla fine a salire in Friuli. Ho inventato delle altre scuse, un altro progetto, infilato la lettera azzurra in una tasca, e sono salito in auto. Questa mattina presto, che era ancora notte. In quattro ore sono arrivato. Al centro del paese, di fronte alla chiesa, c'è questa magnifica pasticceria. Mi sono fermato ed ho fatto colazione prima di andare a casa sua. Qui leggo della questione dei femminicidi e mi domando se sia una soluzione.
I suoi non ci sono. La bambina si agita nella culla vocalizzando suoni inconcludenti. Mi fa entrare. Ci sediamo.
Le chiedo che intenzioni ha. Lei insiste perché riconosca la figlia. Le chiedo se è fuori di testa. Ci eravamo divertiti, per un anno, va bene. Ma un figlio è un'altra cosa. Adesso poi che mi sposo, è proprio l'ultima scemenza che posso fare.
«Ti sposi? Con chi?» chiede lei.
«Che ti importa? Non la conosci! E non sono affari tuoi!» rispondo contrariato. Urlando.
«Non saranno affari miei quando tu avrai fatto il tuo dovere con tua figlia» ribatte lei. Urlando.
Con le donne è impossibile discutere. Per natura ti vogliono far sentire in colpa, il tuo punto di vista o non c'è o è sbagliato.
Lei alza la voce, io la alzo di più, ci parliamo addosso, la bambina piange.
In cucina c'è un coltello. Ed è ben affilato.
Forse non è la soluzione migliore.
Ho bisogno di pensare, di un attimo di silenzio.
Ma lei urla. Io di più.
«Sei una puttana, ti sei fatta tutta la facoltà!»
«Ma questa puttana ti piaceva, allora!»
«Si ma come puttana. Tra cercare una puttana e trovare una madre c'è un abisso!»
Sono in un vicolo cieco, lo so. Devo pensare.
«Puttana!»
«Stronzo! Irresponsabile!»
«Lasciami parlare!»
«No, tu piuttosto, ascoltami!»
Non vedo soluzioni. La vista si annebbia. Mi manca il respiro.
Cosa posso fare?
In cucina c'è un coltello. È affilato.

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